martedì 30 ottobre 2012

Storie di bass (e di un coniglio)

Dopo la chiusura di Carp Fishing Mania ho subito una sorta di rigetto verso la pesca. Le boilie non profumavano più, puzzavano. Il garage non era più il covo di un pescatore, ma una disordinata accozzaglia di attrezzatura. Il fango, poi, non era più un compagno di avventura ma un fastidioso grattacapo da tenere lontano. E poi: troppo caldo, troppo freddo, ma quanto vento!, se piove non vado, se vado non so dove mettermi perché è pieno di gente. Insomma, scuse. Quello che serve per giustificare qualcosa che non ti spieghi ma che stai vivendo. Poi son passate le settimane, che son diventati mesi. Un paio. Ad agosto qualcosa si muove. In un pomeriggio pigro passato tra una stanza e l’altra della casa vedo spuntare dallo zaino la mini-cannetta portatile da spinning. Chissà perché... da maggio è sempre stata lì ma la noto solo ora! Mi avvicino, la impugno, la apro, infilo la lenza negli anelli e comincio a farla piegare come se fossi impegnato in un combattimento. «Non ti ricordavo così tosta…». Lì si riaccende la lampadina. Ok, per il carp fishing è presto, e soprattutto ora non hai né il tempo né i soldi per impegnarti in sessioni di più giorni. Ma una battutina a spinning? Di lì a poco parto per le vacanze e vado in Toscana dalla mia (Isa)bella. Con un’idea fissa: ritagliarmi ogni giorno almeno mezz’ora per tentare i bass di un canaletto che scorre lì nella zona. Risultato? Una terapia della pesca bella e buona: difficoltà da superare, lezioni da imparare, astuzie da impiegare e il classicissimo big fish perso in modo rocambolesco. Così mi è tornata la voglia di pescare. Tutto merito di una cannetta, un paio di artificiali e di quella passione che puoi (possono) schiacciare quanto vuoi (vogliono) ma che non elimini (eliminano) mai. Nelle prossime righe, storie di bass speciali. Non perché sono grossi, ma perché sono stati la mia medicina. 



IL PRIMO
Arrivo al canaletto e mi rendo subito conto di una difficoltà: l’inattività fa brutti scherzi. Se poi non sei uno che pesca a spinning abitualmente i giochi si fanno ancora più tosti perché ti manca una cosa fondamentale: la precisione. Ecco allora che mi metto in un punto “morto”, innesco il vermone e comincio a lanciare per sciogliere il braccio. Punto un ramo in acqua, poi una ninfea, poi una cover di erbe. I primi lanci sono un disastro, tanto che spunto un amo dopo aver lanciato quattro o cinque volte sulla sponda opposta. Qui è importante far cadere l’esca proprio contro la sponda, come a imitare un insetto o una lucertolina che cade in acqua. Mezz’oretta vola via così, ma ho ancora un’ora a disposizione. Nuovo amo, nuova esca, parto. Se voglio prenderli subito devo pescare a vista. In questo canaletto non ci sono tanti bass, ma la cosa bella è che nelle giornate di sole è facile individuarli. «Polaroid, fate il vostro dovere». Dopo cento metri ne vedo uno. È un piccoletto che tiene d’occhio alcune libellule danzanti a pochi centimetri da lui. Pare aggressivo. «Ci provo, tanto lo padello». Lancio dietro la sua coda, come mi hanno insegnato, ma forse vado un po’ troppo lontano. «C***o, la precisione!». Lui schizza via. «Perso». Poi vedo l’ombra nera che si gira, si ferma e scende sul fondo. Il trecciato da 0,08 millimetri vibra. E parte. Ferro per poi portarlo a riva. One shot one kill. Il primo, preso al primo colpo. Discreto fondello o forse qualcosa negli anni scorsi l’ho imparato?


IL SECONDO INCOMODO
Questa è forte. Dopo qualche lancio a vuoto vedo un black bass medio-piccolo in una zona caratterizzata da un albero che fa da “ponte” naturale tra una sponda e l’altra. Messo da parte ogni desiderio bambinesco di percorrerlo, mi acquatto e faccio partire un lancio a scodella che va preciso preciso dietro la testa del bass. Subito si gira e va sul fondo, poi scatta via come spaventato. A volte capita, quando magari l’esca è troppo grossa, oppure con un movimento del polso muoviamo l’artificiale a scatti troppo rapidi. E invece no: la lenza si tende, il cimino flette di brutto e la frizione comincia a fischiare. «Stic***i, mi dico, e che è?!». Dopo un paio di minuti, rischiando di scivolare in acqua, prendo il primo bass “decente” della mia rinascita. Il secondo incomodo, inaspettato: se ne stava sotto il tronco sul fondo e non ci ha messo molto a far capire all’altro piccoletto chi comanda…


L’AGGRESSIVO
Di questo c’è poco da dire: una belva assetata di sangue. Poco dopo aver superato l’albero-ponte arrivo in un punto dove c’è un’ansa con alcuni canneti nel bel mezzo del corso del canale. È pieno di libellule rosse che stanno “giocando” rincorrendosi sopra il pelo dell’acqua. Sapendo cosa c’è sotto, penso siano insetti stupidi: se i black avessero la fame dei siluri, le ammazzerebbero tutte. Poi mi convinco che al contempo sono insetti ganzi, perché forse stanno facendo quelli che noi chiamiamo “sport estremi”. Qui di macchie nere ne vedo parecchie. I giovani black impazziscono cercando di afferrare le libellule. «Benvenuti all’happy hour!». Da buon predatore individuo subito il più grosso. Una vera belva rispetto agli altri. Ne prende una, poi un’altra, poi un’altra. Implacabile. In pochi minuti che son lì ha già ammazzato cinque libellule. Gli basta uno scatto. Cerco tra le bustine qualcosa di rosso e trovo un improbabile “gomma” a X che simula il ver de vase (sì, ma uno di quelli che hanno subito alterazioni del Dna). Tanto so subito come andrà: o lancio preciso e morbido vicino al testone del mammalucco, oppure non prendo niente. Mi concentro. Lancio. La morbidezza non serve, perché non appena la X entra nel suo campo visivo il bass parte, afferra al volo l’esca e rimane allamato da solo. Troppo facile, cara bestia assetata di sangue…


IL PICCOLETTO GOLOSO
Questo è stato davvero matto. L’ho intravisto nella mia camminata. «Piccoletto, ti lascio stare. Ti vengo a prendere tra qualche anno». Cento metri più a valle lo rivedo. «Cosa vuoi da me?». Passa mezz’ora e me lo ritrovo davanti. Capisco. «Allora vuoi finire davanti all’obiettivo del Galaxy SII». Mi fermo. «L’hai voluto tu». Dalla borsa tiro fuori il vermone più grosso che ho. La mia pescata è ormai alla fine e ne approfitto per provare il movimento di una stick bait di gomma che non ho ancora usato ma che voglio provare nei giorni successivi tentando i bass veramente big. Diciamo che è grossa quanto il mini-bass. «Ora vediamo chi sei». Lancio, la gomma cade in acqua e questo che fa? Ci dà dentro con una violenza paurosa e rimane allamato! Non sono riuscito a fotografarlo di fianco all’esca ma dovete credermi: pari erano (o quasi).


IL (QUASI) BESTIONE
Che fosse grosso me ne sono accorto subito. Almeno: grosso per le mie limitate doti e ambizioni di pescatore a spinning. Comunque… andiamo avanti. Vedo quest’ombra bella grossa che punta la sponda sotto i miei piedi. Non la vedo subito, però. Dopo qualche lancio improduttivo (il secondo giorno) decido di spostarmi velocemente in un altro settore. D’altronde dopo la cuccagna di ieri è normale. Non so perché, ma superando un ciuffo di canneti solitario sulla sponda mi viene da voltarmi appena. E lo vedo. «No, non ci provo, questo è troppo grosso per me». Guardo la mia cannaccia telescopica, buona per essere portata ovunque e comunque perché è piccola, ma davanti a un battello del genere… mmm, qualche pensiero me lo dà. E poi: come lo tiro su dalla sponda? Sì, perché poi penso di averlo già preso, quando in realtà so bene che maramaldi così non si fanno ingannare facilmente. «Lascio perdere… magari gli faccio male perché non riesco a tirarlo su dalla sponda». E ricomincio a camminare. Dieci passi dopo mi giro e, come in preda a un raptus, lancio. Sì, dal sentiero! In pratica il filo poggia per quattro quinti sulla terra mentre il vermone, montato a Texas, scende lentamente verso il fondo. E attira l’attenzione della belva. Boom! Quasi la canna mi vola dalle mani quando ferro. Questo comincia a saltare, va a destra, sinistra, sul fondo, ri-salta di nuovo, schizza dappertutto. Poi sembra morto. Mi levo le scarpe e il cellulare dalla tasca, così se volo dentro non rischio perdite eccessive. Lentamente arrivo alla sponda e allungo pollice e indice per la consueta presa sul labbro inferiore. «E come cavolo lo tiro su?». È grosso, non è il mio record ma forse il secondo più grosso che abbia mai preso. Me ne rendo conto quando sento i dentini del black che affondano lentamente nella carne del pollice, già sderenato dal giorno prima. «Ora devo risalire». Lancio la canna sul sentiero dopo aver aperto la frizione e mi aggrappo a una radice. Ci mancava poco che ci fosse scritto “afferrami”. Come un contorsionista tengo il braccio destro alto per non far toccare il bass a terra, ma pesa, cavolo se pesa! «Ma l’ho preso davvero?!». Se quelli di prima sono aspirine, questa è la tachipirina con effetto contrario: mi fa venire la “febbre”. Rilasciatolo dolcemente, riprendo la canna che giace sul sentiero: ora voglio prenderli tutti.


QUELLO SUDATO
Un amico un giorno mi ha detto: «Se li vedi aggressivi con il muso puntato sulla sponda, lanci il vermone e non lo considerano minimamente, ma da lì non si spostano nonostante il disturbo, non mollare. Insisti. Quei bass li prendi solo se gli rompi le scatole». Bè, con questo è andata proprio così. A prima vista non sembrava una preda difficile. Solita situazione: libellule, lui sotto il pelo dell’acqua in mezzo a una cover, bello come il sole ad aspettare l’occasione giusta. Lancio l’esca sulla cover. Noto che lui si sposta per vedere da dove provenga il “fastidio”. Dopo qualche secondo, con un colpo di polso faccio cadere il vermone nel buco della cover dove c’è anche mister bass. «È fatta…»: lo vedo mettersi in verticale, ravanare il fondo, mentre la lenza sussulta lentamente. «Uno, due…», ma non faccio in tempo ad arrivare al tre che lo vedo rimettersi in posizione. Faccio saltellare sul fondo l’esca e lui si riabbassa. Come prima: ritorna nel suo punto indisturbato. Recupero, riprovo. Niente. Allora modifico il rig, lo metto wacky. «Questa volta c’è»: lo vedo infatti più deciso ma passano due secondi e torna su. Il bello è che non si sposta mai da lì. Mi vede, evidentemente ha capito cosa succede, ma sta lì. Boh. Mi prendo una pausa e penso di cambiare l’esca. Riprovo ancora e niente. «Sei un bass-tardo!», dico. A quel punto mi ritornano in mente le parole dell’amico e decido di rompergli veramente le scatole. Faccio dieci lanci, forse arrivo anche a venti, sempre con la stessa esca. Al ventunesimo decide che si è rotto le palle. Non si volta, no: non fa neanche arrivare l’esca sul fondo. Preso. Dopo mezz’ora. Ci ho messo mezz’ora. Con la capoccia sotto il sole di un mezzogiorno d’agosto. Un bass sudato. In tutti i sensi.


GLI IMPRENDIBILI
Anche chi ha poca esperienza sa che i bass piccolini, soprattutto se sono in gruppo e in caccia, sono molto più facili da prendere dei grandi. È per questo che, per scaldarmi un po’, ci provo sempre. Metto su un’esca della misura giusta, lancio nel gruppo e prendo il più aggressivo (o il più scemo). Perché ce n’è sempre uno meno furbo degli altri. Preso quello, i restanti non li prendi più, ma intanto scappotti “facile”. Con i tre “imprendibili” però non va così. Anzi, si trasformano in ossessione. Accade che il terzo giorno arrivo al canaletto e i big bass sono spariti. L’acqua è leggermente più torbida, ma non li vedo più. Anzi, in realtà non vedo più manco un bass. L’unico che vedo, lo prendo. Ho poche ore, quindi torno a casa con la coda tra le gambe. Dovrei essere contento… Invece il quarto giorno torno e vedo un gruppetto di tre black medio piccoli belli aggressivi. Non aspettano altro che la mia esca. Spavaldo, lancio e scommetto con me stesso su quale sarà il primo a cascarci. Splash, l’esca arriva e viene aggredita da… tutti e tre! «Ci siamo!». Bam. Ferrata e niente. Spariscono. Venti minuti dopo li ritrovo, tutti e tre, cinquanta metri più a monte. Stessa scena: splash, e sempre, tutti e tre insieme, aggressivissimi. Danno musate, ma non aprono la bocca. Spariscono ancora. Eccoli di nuovo, venti metri più in là: ci riprovo ma questa volta scappano. Sono nervosi, ora. Decido di seguirli senza lanciare. Ne voglio prendere almeno uno, anche se dentro di me continuo a dire: «’Mo vi prendo tutti e tre». Passata una mezz’ora rilancio: stavolta sono sotto la fronda di un albero che pende sull’acqua. Uno si volta, aggredisce il vermone ma non ci rimane. Rilancio e si muove il secondo... ma fa come il primo. La sfida così assume i connotati della mania. Chi mi avesse visto da fuori avrebbe visto uno scemo fare su e giù inseguendo questi tre bastardelli. Al tramonto ci rinuncio: «Avete vinto voi». Ho perso quattro ore per stare dietro a questi tre, cavolo. «Non ne voglio più sapere…». L’ultimo giorno torno infatti al canaletto. Decido di battere un tratto che ho sempre trascurato perché non ho mai visto molti black lì. Ne prendo qualcuno, ne perdo uno grosso che mi ha rotto il finale in fluoro con un salto, ma tutto sommato va bene. Mezz’ora prima di andare via torno nel tratto che ho battuto i giorni precedenti. Sembra un altro canale: è totalmente coperto di una patina verde. Sembra quasi che l’acqua non ci sia, oppure sia diventata un tavolo da biliardo! Mi basta guardare, ormai la mia pescata l’ho fatta… ma poi vedo sulla sinistra che la superficie verde è mossa da qualcosa che si muove rapidamente, a scatti, sotto. Poi uno schizzo e una libellula che scompare. Guardo bene e i polarizzanti cosa trovano. I tre. Sì, sempre loro tre, sempre nella stessa formazione in caccia di libellule: uno al centro, uno a destra e uno a sinistra, con quello a sinistra con la testa rivolta dalla parte opposta rispetto agli altri due. Sono inconfondibili. Brivido. «Ci provo». Tiro di nuovo fuori la canna dallo zaino e, nascosto dietro un albero, innesco il vermone che non mi tradisce mai, quello che risolve sempre i cappotti. Stavolta al posto di lanciare nel mucchio provo a tentarli uno per uno. Parto da quello di destra: gli lancio di fianco, a una quarantina di centimetri. «Non ci credo!». Si gira e mangia. Preso. Dieci minuti dopo individuo i due superstiti. Tocca a quello di sinistra. Stessa scena, solo che stavolta gli lancio davanti. In meno di un secondo attacca il vermone e finisce davanti all’obiettivo della macchina fotografica. Il terzo arriva in sequenza. Lancio sulla sponda, colpo di polso a far cadere l’esca in acqua, l’esplosione di schizzi e via. Un giorno intero per non prenderli, meno di mezz’ora per ingannarli tutti e tre. Così è la nostra passione. E così sono le condizioni di pesca: determinanti. Se non fosse stato per l’heavy cover verde si sarebbero comportati come negli altri giorni: da imprendibili bass-tardi.




IL SETTEMBRINO
Finita la vacanza, torno per un weekend di settembre. Ho circa venti minuti di pesca, non di più. Il canaletto è cambiato molto: l’acqua si è abbassata ed è molto limpida. Di bass non se ne vedono proprio. Non mi strappo i capelli, tanto che non dovrei nemmeno pescare, ma un paio di lanci voglio farli visto che la canna nel bagagliaio dell'auto ce l'ho sempre. Quando gli occhi non funzionano (e in questo caso non possono funzionare: di bass non ce ne sono!) faccio affidamento sull’esperienza. Ovvero: lancio dove ho preso qualcosa nelle pescate precedenti. Il terzo spot è quello buono. È quello del big one di agosto: lancio, faccio scendere il vermone sul fondo e poi vedo, dopo un leggero colpo di polso, che la lenza parte verso destra. C’è! Piccolino settembrino bassassassino!


 

L’INCONTRO RAVVICINATO DEL TERZO TIPO
Sto pescando e improvvisamente sento un fruscio. Nella zona ci sono parecchi gatti, ma anche topi e lucertole. Non mi preoccupo più di tanto. Comincio a farlo quando sento che il fruscio è vicino alle mie gambe. «E se fosse una vipera?!». Mi ghiaccio. «Stai fermo, Paolo». A quel punto prendo la canna e comincio a battere il calcio a terra, per spaventare l’intrusa. A ogni colpo, il fruscio però si avvicina. L’erba è alta e non vedo niente. Sono solo. Se mi morde un serpente devo farmi almeno mezz’ora a piedi prima di ritrovare la civiltà. In poche parole, sono morto. Il fruscio si ferma. Tolgo gli occhiali e vedo qualcosa di scuro. Anzi, nero. Respira. «Chi c***o sei!», dico ad alta voce brandendo il calcio della canna come una spada. «Già, perché gli animali ti rispondono, magari è il lupo cattivo», dice la parte lucida di me. Coraggio a quattro mani, devo fare qualcosa. La canna è troppo debole, allora mi chino e vedo un grosso legno a portata di mano. Fruscio. «O la va o la spacca». Prendo il ramo e comincio a spostare la vegetazione, foglia dopo foglia. E chi ti trovo? Lui, l’affare che c’è nella foto qui sotto. Un coniglio ariete t-e-r-r-o-r-i-z-z-a-t-o. Ed è enorme: 8-9 chili almeno. «Meno male che io non mangio il coniglio», gli dico, ricoprendolo con la vegetazione. Mi avrà capito?


IL GIALDONE
Non dovrei raccontarla, ma mi tocca. Sempre a settembre torno per un paio di lanci. Vedo i lucci ma non i black. Pazienza. Spot per spot, li batto tutti ma niente. A un certo punto scorgo un po’ di movimento tra due ciuffi di canneti. Sembrano carpe, però. «Sì, guarda come grufolano!»: se nello zaino avessi avuto una telescopica da carpa e due pellet… Decido comunque di lanciare in mezzo ai due ciuffi, lanciandovi leggermente oltre per far passare l’esca tra le cannelle, facendola saltellare sul fondo. Al quinto colpetto di polso vedo che la lenza impazzisce come se fosse stata colpita da una scarica elettrica. «Ma che cavolo…». Qualcosa si è attaccato. Tira in modo strano, a zig zag, e fa tirate lunghe. «Non sembra un black…». Pochi secondi dopo lo vedo e non voglio credere ai miei occhi. Un gialdone. Preso per sbaglio fuori dal corpo? Macché. Preso bene, benissimo, nel centro della bocca. Bocca che tra l’altro non avrebbe mai potuto mandare giù neanche metà vermone. Gialdon spin master!

 



QUELLO CHE SE NE È ANDATO
The one that got away. Lo dicono in molte canzoni sdolcinate e a pesca capita molto spesso. “Il pesce che perdi è sempre quello più grosso”, rammentano i saggi. Vero, ma stavolta è così. Mi fa male perfino parlarne oggi. Lancio, due secondi dopo che l’esca è in acqua parte una mangiata pazzesca, il pesce salta fuori e quasi scivolo in acqua. Poi tiene il fondo, cattivo. La canna non ce la fa proprio a tenerlo, la frizione è schiava della sua forza. Si infila in un canneto, continua a muoversi sul posto, testa a destra e a sinistra nel tentativo di slamarsi. E mentre accade tutto questo cosa faccio io? Niente. Ebete. Sto con la canna in mano e non so che cavolo fare. E lui si slama. Il vermone schizza fuori dall’acqua e, plof, riatterra sotto i miei piedi, a 10 centimetri dalla sponda. A quel punto l’acqua dalla sponda opposta si increspa e lo vedo arrivare, cattivissimo, di nuovo: gnam, si riprende il vermone e lo riferro. Un battello, un bass così non l’avevo mai visto. Non riesco a tenerlo, fa quello che vuole. Intanto scendo lungo la sponda. «Se si stanca almeno riesco a prenderlo con la mano…». Eccolo, c’è. Sembra cedere. È a galla, corpo di lato. Penso già alle foto, alle telefonate agli amici, alla missione compiuta, ma poi vedo che l’amo è attaccato a un piccolo lembo di pelle. «Tieni, ti prego…». Porto la canna dietro la schiena, mi allungo, lo prendo e l’amo si stacca. A quel punto il mister bass si dimena, io sono in equilibrio precario e sto per scivolare in acqua con canna, zaino, telefono e tutto. Con la mano destra mollo la canna e mi attacco a un ciuffo di canneto. Intanto il big black continua a infierire sulla sinistra. Non dura molto: il canneto cede e volto per metà in acqua. Ormai senza controllo, la mano sinistra cerca un appiglio guidata dall’istinto di sopravvivenza e molla il big. Che, contrariamente a quello che mi aspettassi, se ne va lento lento verso la sponda opposta. E, mentre risalgo aggrappato ai canneti imprecando in tutte le lingue dell’universo, mi guarda. «Ok, ok, ok. Uno a zero per te».






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